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Bollettino dei Lavoratori - Maggio 2020

  • andreamarconia
  • 18 giu 2020
  • Tempo di lettura: 24 min

La Fase 1 dell’emergenza coronavirus è stata, per chi ancora avesse avuto delle riserve, la conferma non solo dell’incapacità del capitalismo di ragionare in termini di interessi di specie, ma anche del fatto che non c’è in tale modo di produzione neppure l’intenzione, per quanto velleitaria, di perseguire tale obbiettivo. Negli ordinamenti sociali precapitalistici si viveva a stento e si moriva poiché l’umanità era soggiogata alla natura, ai suoi ritmi e alla furia dei suoi elementi. Nel capitalismo, l’umanità è soggiogata al capitale, alle sue esigenze e alla furia dei meccanismi della sua valorizzazione. Gli oltre tremila morti della bergamasca hanno gettato la luce sulla cieca ferocia della borghesia quando, di fronte ad un’emergenza divenuta di tale portata a causa delle sue scelte pregresse (come gli anni di tagli indiscriminati alla sani-tà), entra in fibrillazione per paura di perdere quote di mercato. Le responsabilità di Confindustria, le sue pressioni affinché la provincia di Bergamo non diventasse zona rossa al principio dell’epidemia, pesano come un macigno su quell’ecatombe. Se dunque nel-la “Fase 1”, il capitale s’è mostrato senza maschera in ciò che pone come priorità per l’intero corpo sociale, nella “Fase 2” assistiamo alla preparazione di un pesante attacco alle condizioni salariali e di lavoro del proletariato, che la borghesia sta presentando in maniera tanto più manifesta e senza giri di parole, quanto più sta diventando incontenibile l’ansia di cogliere appieno e con i maggiori risultati possibili il momento favorevole al dispiegamento di tale attacco.

Catalizzatrice di tale operazione è la narrazione dell’ennesi-ma “crisi”, di fronte alla quale tutto è concesso alla borghesia sul fronte degli attacchi e nulla è concesso al proletariato sul fronte della difesa. Chiunque osi solo porre dubbi sulla legittimità delle bastonate vibrate sulla schiena dei lavoratori da parte degli imprenditori in tempi di “crisi”, è un irresponsabile, votato ad un’ormai giurassica logica del conflitto, che non pone innanzi a tutto gli interessi del Paese.

E questo i sindacati confederali sembrano averlo imparato da bravi scolaretti. Di fronte al neopresidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che invoca il superamento dei contratti nazionali in favore di una definizione in sede aziendale di turni, orari di lavoro e numero di giorni di lavoro nel 2020, di fronte al presidente di Confindustria Vicenza, Luciano Vescovi, che auspica la rinuncia alla vita sociale da parte degli operai, affinché facciano solamente casa-lavoro-casa, stringendo la cinghia “come i nostri nonni”, di fronte al presidente della Lombardia Attilio Fontana che propone di spalmare la settimana lavorativa su 7 giorni, di fronte a forze borghesi decise a regolarizza-re i migranti, solo alcuni e per il tempo necessario che serve a fare ingrassare gli imprenditori agricoli, di fronte all’intero consorzio imprenditoriale italiano che sta suonando la carica contro i lavoratori, mentre al contempo intasca aiuti di Stato, proroghe e tagli fiscali in quantità mai sognate prima, i sindacati con-federali che fanno? Cercano di riportare l’attenzione alla legge sulla rappresentanza e sui contratti erga omnes, senza ovviamente concentrarsi sul definire un innalzamento della qualità di tali contratti in senso favorevole al proletariato. E così, mentre Bonomi, più determinato che mai, esordisce alla presidenza di Confindustria promettendo lacrime e sangue ai lavoatori, Landini (Cgil) si augura «di lavorare bene con lui» e si complimenta per la nomina, mentre Furlan (Cisl), a chi le chiede se la riduzione dell’orario di la-voro possa essere una soluzione alla disoccupazione da “crisi” da coronavirus, risponde: «Bisognerà ragionarci su, ma senza perdere di vista l’obiettivo della produttività».

Il proletariato italiano sta per affrontare un attacco durissimo, avendone nel complesso una scarsissima consapevolezza. Gli scioperi spontanei che hanno rinfrescato la conflittualità di classe all’inizio della diffusione del coronavirus in Italia, sono terminati non dando seguito finora a mobilitazioni di più ampio respiro, ed anche i più recenti casi di mobilitazioni (ArcelorMittal, Jabil, braccianti agricoli), non sembra-no aver innescato alcun processo che vada oltre i confini delle singole aziende coinvolte.

La nostra classe, nel suo complesso, non si rende conto di chi sia il nemico che sta per colpirla, e i sindacati maggiormente rappresentativi, che dovrebbero indicarle il pericolo e impostare un piano di difesa, sono ridotti al rango di docili cagnuoli al guinzaglio dei grandi e piccoli borghesi seduti al tavolo delle decisioni.

Oggi più che mai è dunque fondamentale il lavoro delle poche ma preziosissime avanguardie, di quelle minoranze politiche organizzate che hanno il compi-to di porre un argine alla debordante retorica borghese dell’“ognuno, in tempi di crisi, deve fare la propria parte”, il che per la borghesia significa: il proletario a lavorare a testa bassa, senza farsi domande e l’imprenditore a intascare i frutti di quel lavoro e di quei sacrifici.

14 aprile, la Repubblica (edizione online), Rosaria Amato, «Vescovi: “Riaprire subito le fabbriche, non le librerie: non è ancora il momento della vita sociale”».

Luciano Vescovi, presidente di Confindustria Vicenza, chiede con forza la riapertura delle fabbriche, pur conscio che l’emergenza coronavirus non è finita. Secondo Vescovi «per mantenere la sicurezza bisogna avere uno stile di vita simile a quello dei nostri nonni, che uscivano di casa solo per lavorare e quando finivano tornavano a casa. Un percorso casa-lavoro-casa, perché se invece si ricomincia ad andare in libreria e cartoleria si fa esattamente il contrario». «Bisogna dirlo chiaramente: bisogna tornare a lavorare, e tirare la cinghia per un po’».

16 aprile, il Fatto Quotidiano (edizione online) «Coronavirus – Milano-Venezia, fronte leghista per riaprire. Fontana: “Spalmiamo lavoro su 7 giorni”. Zaia: “Venerdì il piano”».

Il presidente della Lombardia Attilio Fontana ritiene fondamentale riaprire quanto prima le attività produttive. Ebbene, per evitare assembramenti sui mezzi pubblici, propone di spalmare la settimana lavorativa su sette giorni anziché sugli attuali cinque.

20 aprile, La Stampa, Maria Corbi, «Brunello Cucinelli: “Adesso dobbiamo recuperare il tempo per-so. Niente ferie per i miei collaboratori ad agosto”».

Brunello Cuccinelli, stilista e titolare dell’omonima casa di moda da 607,8 milioni di euro di fatturato nel 2019, per «garantire il cibo alle persone che lavorano con noi», promette di non licenziare nessuno. Ma in cambio chiede di lavorare mezz’ora in più al giorno e di lavorare anche ad agosto.

17 aprile, la Presse, “Confindustria, è l’era Bonomi”.

Carlo Bonomi è stato designato come successore di Vincenzo Boccia alla guida di Confindustria. Per superare «la sfida tremenda che è di fronte a noi», Bonomi chiede di riavviare quanto prima le produzioni, e sottolinea come, per far fronte alla «nuova voragine che sarà tremenda», i prossimi anni «ci chiederanno molta dedizione, molta passione civile, quella passione e dedizione che hanno portato i nostri padri e le nostre imprese a ricostruire l’Italia nel Dopoguerra». Gli fa eco Boccia: «Saranno tempi difficili, di sacrifici, impegni e pochi onori». Inoltre Bonomi non nasconde lo scetticismo verso una politica che «ci ha esposto a un pregiudizio fortemente antindustriale, non pensavo più di sentire l’in-giuria verso le imprese che sono indifferenti alla vita dei propri collaboratori, sentire certe cose dai sindacati mi ha colpito profondamente».

27 aprile, la Repubblica (edizione online), Rosaria Amato, «Otto milioni in smart working per alme-no altri 6 mesi. Ma dagli Usa arriva l’allarme: “Da remoto, l’orario si allunga di 3 ore”».

Il ricorso allo smart working, impennatosi durante l’emergenza sanitaria, rimarrà una modalità irrinunciabile anche dopo l’emergenza. La Pubblica Amministrazione ad esempio si è posta l’obbiettivo di mantenere in smart working anche in futuro almeno il 30-40% dei dipendenti. Ma molti lavoratori la-mentano che da quando sono in smart working lavorano sino a 3 ore in più al giorno, faticando altresì in modo notevole a separare la sfera privata da quella lavorativa.

30 aprile, Ansa, “Bonomi, confronto su tempi lavoro in deroga contratti”.

Il neopresidente di Confindustria, Carlo Bonomi, sprona il Governo acché «agevoli quel confronto leale e necessario in ogni impresa per ridefinire dal basso turni, orari di lavoro, numero giorni di lavoro settimanale e di settimane in questo 2020», «da definire in ogni impresa e settore al di là delle norme contrattuali». Bonomi sottolinea come «Senza questo sforzo collettivo la ripresa resta sotto ipoteca. È impossibile pensare di perdere 8/10%, del Pil e che dopo due mesi possa tutto ritornare come disposto dai contratti vigenti».

1° maggio, Huffpost, Alessandro De Angelis, «“Un sindacato di strada per la ricostruzione”. Intervista a Maurizio Landini».

Se la metafora della guerra per descrivere le conseguenze economiche dell’emergenza coronavirus è rifiutata dal leader della Cigli Landini, in quanto può essere utilizzata per far digerire ogni cosa, com-presa la limitazione della libertà e della democrazia, la narrazione della crisi no. Anzi: è già stata più che digerita dal leader confederale, che risponde alle domande dell’Huffington Post circa quanto la Cgil è disposta a cedere in tema di relazioni industriali, per consentire la ripresa post emergenza coronavirus. Landini si concentra sul necessario rilancio di «[…] una stagione legislativa sulla rappresentanza che recepisca gli accordi interconfederali e, certificando la rappresentanza delle organizzazioni sindacale e datoriali, rafforzi il diritto alla contrattazione collettiva, dando così valore erga omnes ai contratti nazionali di lavoro […]», nonché di un nuovo Statuto dei Diritti, che sancisca «il diritto alla formazione permanente» dei lavoratori. Quando gli viene chiesto circa la capacità della Cgil di influire politicamente, Landini risponde: «C’è stata. Abbiamo sostenuto misure anche a favore delle imprese[…]». Infine, a proposito del neopresidente di Confindustria, Carlo Bonomi, Landini specifica: «prima di dire ciò che penso voglio conoscere bene il programma della nuova Presidenza». E conclude complimentandosi con Bonomi: «La squadra che ha proposto il presidente incaricato è certamente di qualità».

4 maggio, Corriere della Sera (edizione online), Rita Querzè, «Fase 2, Bonomi: “I soldi a pioggia finiscono presto. Alle imprese servono investimenti”».

Carlo Bonomi, intervistato dal Corriere della Sera, non usa mezzi termini e va dritto al sodo: «Abbiamo reddito di emergenza, reddito di cittadinanza, cassa ordinaria, straordinaria, in deroga, Naspi, Discoll – dice Bonomi – Potrei continuare. La risposta del governo alla crisi si esaurisce in una distribuzione di danaro a pioggia». Le proposte alternative a Confindustria non mancano, «peccato che al governo difetti la volontà di ascoltare. Ho l’impressione che ci si prepari fin d’ora a scaricare le responsabilità su banche e imprese. Non lo permetteremo». Secondo Bonomi «quando un’impresa chiede fondi è perché ha un progetto da realizzare», per cui lo Stato pensi, oltre che a sbloccare tutte le opere pubbliche già finanziate, a corrispondere «sia gli incentivi di industria 4.0 e sia i pagamenti dei debiti che lo Stato deve alle imprese» i quali «devono trasferirsi in liquidità immediata, cioè con una detrazione sulle imposte che si pagano quest’anno». Lo Stato, in altre parole «faccia il regolatore, sti-moli gli investimenti. Per esempio questo sarebbe il momento per rilanciare con più risorse il piano Industria 4.0 visto che a questa crisi sopravvivrà chi investirà. Ma si fermi lì. Non abbiamo bisogno di uno Stato imprenditore, ne conosciamo fin troppo bene i difetti». Passando poi alla gestione dei dipen-denti nella Fase 2, Bonomi spiega: «Bisogna avere ben presente che quella che sta iniziando è la stagione dei doveri e dei sacrifici, per tutti – sottolinea Bonomi –. Quando sento chiedere aumenti contrattuali, per esempio nell’alimentare, significa che a molti la situazione non è chiara». Sulla verifica della sostenibilità della ripartenza Bonomi è lapidario: «Quello che mi preoccupa e mi indigna è che si giochi ancora a dare la responsabilità alle imprese di un eventuale aumento dei contagi. Il Codice civile mette in capo all’impresa la salute e sicurezza dei lavoratori. Con il Covid-19 questo genera una situazione potenzialmente deflagrante. Penso al rischio di cause di lavoro e alla possibilità che venga richiesto alle aziende di dimostrare che un dipendente ammalato non si è contagiato in azienda: semplicemente una follia».

Come ogni anno, intorno al Primo Maggio, hanno ronzato i festaioli e gli anti-festaioli. Gli uni al servizio dell’imperativo interclassista ligio alla massima del dominio di classe: celebrare per imbalsamare. Gli altri, compiaciuti del loro sagace profilo dissacratore, intenti a ripetere il lugubre man-tra di un cinismo senza spessore: ma quale festa del lavoro se ormai non c’è lavoro? Peccato che né l’origine né la storia né il senso profondo del Primo Maggio coincidano con il concetto oggi comune di festa come divertimentificio (poiché in questa riduzione merceologica nemmeno il significato storico e antropologico più complesso di “festa” è conservato). La valenza del Primo Maggio continua a risiedere nella rivendicazione di classe, in un’occasione per riaffermare un’identità storica, sociale, politica. In questa giornata, cerchiata del rosso del sacrificio e della lotta del movi-mento operaio, si ribadisce la proclamazione di umanità di chi nell’universo del capitale è merce forza-lavoro. Si rinnova la dichiarazione di guerra a questa società basata sullo sfruttamento. Non sorprende, quindi, che in questa stessa società vengano incoraggiati i sostenitori del Primo Maggio come festa insieme ai suoi detrattori, sempre in quanto festa, accomunati dalla negazione di una data simbolo per una necessità di riscatto mai sopita. Né stupisce che l’emergenza coronavirus ab-bia fornito ulteriori cartucce per il tiro al bersaglio contro la natura più autentica della giornata di mobilitazione e memoria dei lavoratori di tutto il mondo. I militanti impegnati nella pubblicazione di questo bollettino dei lavoratori hanno voluto riunirsi in teleconferenza, nel giorno del Primo Maggio, per condividere e riflettere. Condividere le proprie esperienze di lavoratori e di militanti della classe lavoratrice in questa fase critica. Condividere le proprie valutazioni circa il momento presente, con i compiti, le sfide, le minacce che esso implica per il proletariato. Riflettere sulle con-seguenti proposte, sulle coerenti sintesi politiche che possono fornire alimento e respiro ad una battaglia di classe oggi più che mai necessaria. Crediamo sia stato un buon modo di onorare il Primo Maggio, di far fruttare l’occasione fornita da questa storica ricorrenza della classe operaia. I vari contributi hanno mostrato il segno di un intenso tentativo di analizzare l’attuale situazione di emergenza e di crisi sanitaria nelle sue ripercussioni sociali e di classe, apportando testimonianze dirette della condizione operaia e cercando di decifrare quei nessi, quegli elementi e quei fenomeni attorno a cui, negli sviluppi in corso, può meglio definirsi un’impostazione politica capace di costituire un fattore di crescita della coscienza proletaria. Dalla constatazione di quanta pressione sia stata sprigionata dalle forze profonde della società capitalistica per mantenere, in piena epidemia, la forza-lavoro in attività, a costo non solo di esporre i lavoratori a gravi rischi ma anche di produr-re enormi contraddizioni nella risposta delle pubbliche autorità al contagio, è derivata una grande conferma del permanere della centralità della classe operaia. Clamorose deroghe, riservate dal potere politico agli interessi dei vertici industriali, hanno consentito di delineare un regime di eccezione di massa per milioni di lavoratori, sottratti, in quanto unici veri produttori della ricchezza sociale e pilastro insostituibile del modo di produzione capitalistico, alla campagna e alla legislazione straordinaria del “tutti a casa”. La dura realtà dei fatti, capace di vincere ogni elucubrazione interessata, ha fatto in un istante piazza pulita di decenni di elaborazioni ideologiche intorno alla scomparsa della classe operaia e al superamento da parte del capitalismo della sua essenziale composizione classista. Si è riaffermata con forza la centralità della classe operaia, la necessità per la borghesia - per sopravvivere come classe - di sfruttare il proletariato. Ma da questa necessità nasce la possibilità per la classe operaia di sprigionare una forza risolutiva e determinante per capovolgere questo rapporto.

Partendo da questa basilare attestazione, è stata indicata la necessità di individuare un registro che possa conferire la maggiore efficacia possibile ad un’azione politica di denuncia, ad una complessità di interventi tramite cui misurarsi con un momento di aspra chiarezza della natura dei rap-porti capitalistici, nel segno di una matura acquisizione teorica dei compiti e delle potenzialità del proletariato. Proprio la rilevazione puntuale dei limiti e delle inadeguatezze della società capitalistica nell’affrontare l’epidemia e l’emergenza sanitaria pone la base, da questo punto di vista, per la rivendicazione, rafforzata dall’esperienza drammatica dei costi umani delle inefficienze dell’ordinamento sociale classista, di un ruolo guida della classe lavoratrice nella transizione verso una gestione delle forze produttive e delle risorse sociali posta finalmente lungo i binari della coscienza dei superiori interessi del genere umano. II lucido e doloroso raffronto tra i limiti del capitalismo e l’energia emancipatrice racchiusa potenzialmente nelle condizioni e nel ruolo storico della classe operaia fa sì che questo momento drammatico dia forza all’impegno militante proletario. La campagna montante che descrive l’attuale situazione come un tracollo economico e sociale generato dall’epidemia rappresenta un serio pericolo per le azioni di lotta che oggi si devono intraprendere.

La narrazione di una sorta di “crisi da coronavirus” non lascia, infatti, solo nell’ombra le condi-zioni pregresse di indebolimento e di precarizzazione della condizione della nostra classe. Spiana anche la strada ad una mobilitazione comune contro il “comune nemico”, ad un’ennesima stagione di sacrifici da parte dei lavoratori in ragione di un evento apocalittico presentato come estraneo ed esterno rispetto alla “normalità” del capitalismo e alle logiche di classe. Solo ribadendo con for-za, invece, che i disagi che settori della nostra classe stanno affrontando derivano dall’incontro tra una situazione di emergenza (in gran parte innescata da un’incessante opera di ridimensionamento e di aziendalizzazione del sistema sanitario) e gli esiti di decenni di politiche anti-operaie che hanno in generale reso più vulnerabili i salariati, si può sfuggire alla vecchia ma sempre utilizzata formula dell’unione sacra, che, in nome della comunità nazionale riscopertasi di fronte al virus, è destinata a produrre ulteriore impoverimento e asservimento dei lavoratori di fronte al profitto. È la “normalità” dello sfruttamento proletario e dell’aggravamento della condizione operaia ad aver reso possibile l’eccezionalità degli effetti dell’epidemia sul piano occupazionale e sociale. È stato, quindi, correttamente rilevato come sia una costante storica la propensione della borghesia a sca-ricare sulla classe sfruttata i costi di fenomeni di crisi e di rallentamento economico che invece so-no pienamente ascrivibili alle leggi e alla struttura della formazione sociale di cui la stessa borghesia è ai vertici. Intorno alla continuità storica di questa tendenza si rielaborano e si plasmano le for-mule con cui concretamente aggiogare la classe operaia all’ingannevole compito di ricostruzione di una fittizia “casa comune”. All’occorrenza persino accentuando i toni apocalittici e catastrofici in modo da favorire, nel nome di un opprimente interclassismo giustificato da un accomunante stato emergenziale, un più sfrenato impiego dei lavoratori nell’incessante competizione capitalistica e nell’opera di rafforzamento di determinate frazioni borghesi.

Intorno a questi temi, a queste considerazioni e a questi spunti di riflessione, la discussione è stata viva. Proprio la chiarezza delle nostre analisi sulla fase attuale, così diverse dalla interpretazione borghese, ha reso il confronto autentico e stimolante, rafforzando una identità di classe che consolida la nostra azione politica. Registri differenti, sensibilità differenti e differenti punti di osservazione, pur nel comune impianto di classe conferito alla lotta politica e ai suoi compiti, hanno la loro ragione di essere e una loro utilità perché sono altro rispetto alle mode e al narcisismo intellettuale degli ammorbanti dibattiti ideologici borghesi. Rientrano invece nel concetto pieno di militanza, una militanza che vive di continuo e rigoroso confronto con la realtà, con i compiti e gli esiti dell’azione politica in essa. I militanti devono costantemente confrontarsi al fine di adeguare le loro azioni al continuo mutarsi della realtà capitalistica

Da questo punto di vista, questo Primo Maggio ha rappresentato un momento utile, in un impe-gno che prosegue.

Dalla pubblicazione del primo bollettino del nostro corrispondente, lavoratore in un laboratorio di analisi biomediche impiegato nel trattamento di campioni infetti da SARS-CoV-2, l’emergenza sanitaria è legger-mente scemata, senza però essere accompagnata da un alleggerimento dei turni e senza aver visto i fantomatici aumenti di stipendio.

Dal punto di vista sanitario, da fine aprile 2020 si è vista una diminuzione dei casi totali, evidenziati, in questa particolare situazione, da un aumento della percentuale di esiti negativi al tampone orofaringeo o nasofaringeo per la rilevazione del virus, a fronte di un inizio in cui quasi il 100% dei campioni risultava positivo. Questo è dovuto anche al fatto che, essendosi allentata la condizione di emergenza, il sistema sanitario e i privati che si occupano di questi trattamenti, hanno cominciato a fare più tamponi anche a chi non avesse già presentato sintomi gravi.

Questa concatenazione di eventi ha portato a misure meno restrittive nei vari DPCM che si sono sussegui-ti, e che, ad ora, non hanno causato un secondo picco di infezioni.

Un’importante aggiunta di questi mesi per il trattamento è stata quella dei cosiddetti test sierologici, molto meno complessi da elaborare, ma anche molto meno precisi ed affidabili. Si tratta di una risposta quasi istantanea (pochi minuti) di un campione di controllo alla reazione con una goccia di sangue del paziente, simile a quello che avviene nei test per il diabete o la mononucleosi. Questi test sono in grado di rilevare la presenza nel sangue degli anticorpi anti-covid e di dare anche informazioni sullo stato dell’infezione, che sia quindi ancora in atto oppure conclusasi, spesso senza nessun sintomo.

Non essendo nota a fondo la cinetica del virus, non si possono però considerare i risultati come affidabili, avendo spesso casi di falsi positivi o negativi o di mancata rilevazione. Un eventuale test sierologico positivo deve quindi essere seguito da un tampone. Questi test, venduti da aziende private a caro prezzo, sembrano quindi sfruttare il panico per un’emergenza in atto e assolutamente reale, con l’unico solito scopo di inseguire il profitto, rivendendo piccole quantità di reagente unite a una lastra di plastica di po-chi centimetri a decine di euro, fino oltre ai 100, dimostrando ancora una volta, per chi avesse vissuto in un mondo suo e illusorio (come il presidente degli Stati Uniti d’America Ronald Reagan, che nel 1985 disse che in caso di attacco alieno Russia e USA si sarebbero alleate lasciando da parte la guerra fredda), che anche davanti all’emergenza comune, l’unico punto in agenda è il profitto, sulle spalle dei lavoratori e dei consumatori.

Tornando nella nostra azienda, il carico di lavoro non è diminuito, nonostante le nuove assunzioni (a tempo molto determinato), con turni sempre massacranti, con lunghi straordinari e nessun giorno di riposo. Viene negata completamente non solo la possibilità di prendere ferie (obbligando a cancellare quelle inserite mesi fa) ma anche quella di singoli giorni liberi, in un ambiente in cui i dirigenti cercano di mettere uno contro l’altro i lavoratori per sfruttare al meglio questa divisione e per aumentare la produttività in-stillando una puerile competitività, che, grazie anche alla preparazione del nostro collaboratore, non ha avuto l’effetto sperato.

L’intensità e la durata di questi turni non lasciano tempo per una vita al di fuori del laboratorio, e, come se non bastasse, tutto questo non si riflette minimamente nella busta paga, i millantati aumenti non si sono visti, e a vedere in dettaglio gli straordinari e il comportamento dell’azienda resta sempre quella sensazione di poca chiarezza e tentativo di approfittare anche oltre ai limiti della legalità del lavoratore, merce da spremere il più possibile finché si ha la scusa dell’emergenza, per poi essere buttati via come spazzatura appena finito il contratto di pochi mesi, se non uno solo.

Pian piano viene fuori tutto. Ma proprio tutto!

Perché sapete cosa salta fuori oggi grazie ad un’inchiesta dell’Espresso a firma Fabrizio Gatti? Che quando è scop-piata la pandemia, la Lombardia non aveva sufficienti scorte sanitarie per un motivo: perché una delibera della giunta regionale aveva aumentato gli incentivi economici ai manager affinché tagliassero le scorte negli ospedali. Per questo motivo all’inizio non si è riusciti ad avviare uno screening di massa come in Veneto: le risorse erano sta-te destinate ad altro. Agli stipendi dei manager.

Per esser più precisi, parliamo della delibera numero XI/1681, votata il 27 maggio 2019 su proposta di Gallera da tutta la giunta (tutta!). Che indicava ai manager sanitari gli obiettivi di “tenere sotto controllo le richieste di ordinativi da parte dei laboratori”, ossia tagliare centinaia di migliaia di euro ai laboratori degli ospedali di Lodi, Brescia, Milano. Quelli che poi si sarebbero ritrovati qualche mese dopo in guerra con le “scarpe di cartone”. In cambio di questo? Incentivi economici. Perché giustamente andavano premiati.

Ecco. Ben oltre ogni retorica, stavolta si rimane davvero basiti.

Ma poi la sorpresa scompare, e sale la rabbia. Ma tanta, tanta rabbia.

Perché l’emergenza in Lombardia non è stata uno scherzo. E i soldi dati ai direttori generali nominati dalla politica locale potevano consentire di gestire meglio tutto. Potevano aiutare quella terra a non ottenere l’osceno primato di regione più colpita al mondo dal covid.

E invece sono andati in busta paga ai manager. Mentre negli ospedali e nelle case a patire l’emergenza c’erano quelli che con le loro tasse avevano pagato quegli “incentivi”.

E tutto questo fa incazzare. Al di là dei colori politici, fa incazzare. Come bestie. E fa chiedere, davvero dal cuore, dallo stomaco e dalla testa una sola cosa.

Chi si è reso responsabile di questo ne risponda politicamente. E che lo faccia fino all’ultimo.

Dimissioni subito, e commissariamento della regione Lombardia.

Collettivo 26 Luglio da Carpi

Ho passato un Primo Maggio un po’ brutto perché sono caduto sul lavoro. Non lavoro più in siderurgia dopo la Beltrame, azienda in cui ho fatto esperienza di rappresentanza sindacale con la Fiom prima e poi con i Cobas. Sono tornato a fare il lavoro che facevo quindici anni fa cioè sono impiegato in uno studio di geologia ambientale. Facciamo monitoraggi montando strumenti di rilevamento per le frane perciò, essendoci delle frane da controllare sulla Torino-Savona e altre subito dopo Modane in Francia, il nostro settore ha sempre avuto il permesso di continuare il lavoro e quindi non mi sono mai fermato.

Purtroppo ho piantato un volo proprio mentre lavoravo atterrando sulle co-stole e così ho passato quindici giorni un po’ in sofferenza pur continuando a lavorare. La situazione generale è abbastanza drammatica come al solito ma io sono ancora più pessimista e credo che in Piemonte salirà di nuovo la linea dei contagi costringendo a bloccare di nuovo tutto. In valle (Susa) e a Torino molte attività a conduzione familiare tra cui quelle di alcuni amici sono sull’or-lo della chiusura.

Se permane la pandemia molte chiuderanno (alcune hanno già chiuso) coinvolgendo nella crisi naturalmente i dipendenti.

Molte sono anche le assurdità che si vedono. Ad esempio dovevano incrementare i mezzi pubblici invece non l’hanno fatto. A Torino mi è capitato di salire su di un mezzo pubblico dopo averlo atteso per quaranta minuti per scoprire che tutti i posti a sedere erano occupati e quattro o cinque persone erano in piedi, quindi è ovvio che la cosa è stata gestita male. La situazione sanitaria è stata gestita con carenze di base soprattutto per ciò che riguarda i mezzi di protezione individuale e i prodotti disinfettanti. La situazione economica è grave anche per quelle famiglie dove normalmente entravano 1.600 euro al mese con straordinari ed ora si arriva a mille con la cassa integrazione.

Personalmente sono un po’ complottista perciò credo sia un virus creato in laboratorio che tra l’altro, guarda caso, colpisce gli anziani così da sgravare i costi di erogazione delle pensioni anche considerando che abbiamo sentito dichiarazioni sulla scelta di chi salvare il che voleva dire sacrificare il pensiona-to piuttosto che il lavoratore attivo perché quest’ultimo fornisce un reddito, l’altro è una spesa.

Come lavoratori apprestiamoci ad affrontare ricatti su ricatti alla ripresa quando le aziende si faranno forti dell’aumento della disoccupazione.

Un lavoratore del settore geologico-ambientale

Essere operai in Toscana

Per quanto la regione Toscana passi per una delle migliori per livello di civiltà e per tutela dei diritti, la condizione degli operai non è troppo dissimile da quella del resto del Paese.

Anche qui, la prima preoccupazione riguarda il lavoro. Meglio: il mantenimento del posto di lavoro o la ricerca di occupazione. Il Covid-19 ha reso ancora più drammatica la situazione. Il Presidente della regione, Enrico Rossi, ha dichiarato durante un’intervista a Radio Capital: «Io temo moltissimo la disoccupazione… Ho una grande angoscia: noi avremo nell’arco di pochi mesi decine e decine di migliaia di nuovi disoccupati. Se non facciamo un piano per il lavoro, la crisi sociale diventerà insostenibile».

Ora, ci si può immaginare quali siano i “piani per il lavoro” di cui spesso parlano i rappresentanti politici. In genere si parte dall’assunto che non c’è lavoro se non ci sono imprese. Da questo discende che aiutare le imprese significa aiutare l’occupazione. Quindi più soldi agli imprenditori nell’interesse... degli operai!

Virus o non virus è un film già visto tante volte. Resta il fatto che i lavoratori devono man-giare tutti i giorni e non possono aspettare i tempi dei “piani per il lavoro”. Per non parlare delle attese per la cassa integrazione in deroga, che è arrivata solo alla metà degli aventi diritto. Tanto meno possono aspettare i disoccupati di lungo periodo. Occupati e disoccupati in Toscana come dappertutto hanno propri interessi specifici. Questo è vero sempre e lo è ancora di più in tempi di crisi, di chiusure aziendali e di ristrutturazioni.

La pandemia comporta che si debba prestare, da parte degli stessi lavoratori, un’attenzione decuplicata alla tutela della propria salute, esigendo che questa non venga subordinata a un qualche “interesse aziendale”.

E che la salute dei lavoratori sia qualcosa di cui si devono occupare gli stessi lavoratori, che non ci si possa affidare ad occhi chiusi ai datori di lavoro lo dimostrano i record di morti sul lavoro che l’Italia ha segnato per anni rispetto agli altri paesi più industrializzati d’Europa.

Anche in questi mesi di pandemia, oltre alle vittime mietute dal virus, sono continuate quelle “normali” nei luoghi di lavoro. Due morti nell’edilizia nel fiorentino e un operaio ad-detto alla potatura delle piante a Livorno e un metalmeccanico a Montepascio.

Il governatore Rossi dice di temere la disoccupazione. Di sicuro la temono i lavoratori dell’industria, del commercio, del turismo e di sicuro la temono quei giovani che dalla disoccupazione volevano uscire, magari con un primo lavoro a termine e che ora si troveranno le porte chiuse in faccia.

Ce n’è abbastanza per formulare delle rivendicazioni che rispecchino gli interessi di occupati e disoccupati. Salvare le aziende non significa necessariamente salvare i posti di lavoro. Lo si vede bene dalla piega che sta prendendo il settore della ristorazione, della balneazione e del turismo in genere. Sentiamo ovunque che gli imprenditori “non ce la fanno” e per questo sono costretti a far marciare le loro aziende con molto meno personale. In molti casi sarà anche vero. Ma per i lavoratori rimane il problema della sopravvivenza.

Bisogna che, anche in Toscana, i lavoratori più coscienti e combattivi mettano la testa su questi problemi e ne discutano fra loro in tutte le sedi possibili. Bisogna che le necessità primarie del reddito e della salute trovino un’espressione in specifiche rivendicazioni collettive.

Corrispondenza Livorno

Servizi sanitari e socioassistenziali

in periodo di pandemia

In questa pandemia del 2020 merita attenzione la strage emersa con i decessi di medici, infermieri e O.S.S. (operatori socio sanitari) che, assieme ai nostri anziani morti nelle RSA, hanno pagato il prezzo più alto a causa di un sistema sanitario inefficiente e insufficiente che, soprattutto nelle Regioni Lombardia e Piemonte, non è stato in grado di fornire un paracadute agli operatori del settore, non tutelandoli dal rischio di contagio da coronavirus. Il 6/4/2020 c’erano 1.300 anziani positivi su 3.000 test effettuati nelle RSA del Piemonte (Repubblica del 6 aprile 2020). Il 10/4/2020 la Stampa titola “Coronavirus, la delibera che imbarazza il governo della Regione Piemonte: “mandate gli infetti a curarsi nelle RSA”.

Un dirigente sindacale della sanità piemontese leggendo i dati sugli anziani deceduti per coronavirus esterna “Quelli delle cooperative sono dei criminali. Li stanno ammazzando!” le parole di questo sindacalista, non di certo un rivoluzionario, suscitano quindi il desiderio di comprendere meglio i meccanismi che regolano il governo della rete sanitaria ospedaliera e territoriale nonché della filiera degli anziani e di tutte le altre persone “fragili” di competenza del settore socio assistenziale (ad esempio i disabili psicofisici o i senza-tetto).

Nessuno è stato in grado di affrontare la pandemia né di tutelare i lavoratori della sanità e chi si ammalava di covid-19, poiché non sono stati garantiti i dispositivi di base per la prevenzione nella trasmissione dei contagi né sono stati effettuati i tamponi di massa che avrebbero permesso di isolare le persone infette proteggendo dal contagio operatori e pazienti. E qui abbiamo il primo (ir-)responsabile che si chiama Stato con compiti di coordinamento nazionale della sanità assieme alla Conferenza delle Regioni.

Insieme, lo Stato e le Regioni, negli anni hanno deciso di impoverire progressivamente la sanità pubblica sguarnendola di risorse e di personale, sono sta-ti chiusi ospedali, sono state effettuate varie forme di privatizzazione di intere strutture assistenziali, sono nate una miriade di RSA (Residenze Socio Assistenziali) private, mentre il servizio di assistenza domiciliare ha visto una de-crescita di interventi per i tagli economici, effettuati dal governo.

L’andamento sanitario e socioassistenziale, dagli anni ‘90 in poi, vede il passaggio delle RSA e di tutte le strutture comunitarie che ospitano pazienti psichiatrici o disabili (psichici o fisici o psico-fisici) dal pubblico al privato, la trasformazione delle Unità sanitarie locali (USL) in “Aziende” sanitarie Locali e, infine, l’esternalizzazione/privatizzazione dei servizi socio-assistenziali. Cooperative e privati gestiscono le strutture con personale insufficiente, perché bisogna attenersi alle regole del bilancio aziendale anziché ai bisogni reali delle persone.

Negli ultimi decenni, si sono realizzate le ultime esternalizzazioni di tali servizi (prima interamente governati dalla pubblica amministrazione) affidati a cooperative o associazioni private. In alcuni casi, il settore sanitario e socio assistenziale ha commissionato la gestione dell’intero appalto e in altri ha mantenuto il governo dei servizi esternalizzando soltanto il personale socio-assistenziale o sanitario per poter sfruttare al massimo i lavoratori sottopagandoli. In alcune RSA la direzione lavorativa degli O.S.S. (operatori socio sanitari e alcuni infermieri) è rimasta alle Asl che stabiliscono regole e protocolli lavorativi impartendo gli ordini di servizio e decidendo i turni di lavoro degli O.S.S., dipendenti di cooperative con miseri contratti malgrado turnazioni massacranti.

Il Comune di Torino ha ereditato dalle Province i servizi socioassistenziali alla fine degli anni ‘90 mantenendo alla sua diretta e completa gestione una sola struttura pubblica, “modello” per ogni tipologia di servizio (comunità disabili, comunità minori, Centro diurno per disabili, ecc.) e riferimento per i privati o le cooperative (ad esempio una comunità dei minori, una di disabili psichici, un Centro diurno SocioTerapeutico, ecc.). Altrettanto è avvenuto per il setto-re degli anziani. L’I.R.V. (Istituto Riposo Vecchiaia) è scomparso con il subentro delle R.S.A. (Residenze Sanitarie Anziani). Sarebbe utile un’indagine sull’andamento di tutti questi servizi durante l’emergenza del coronavirus per capire quali sono i luoghi dei numerosi decessi e distinguerli per tipo di gestione ed esternalizzazione/privatizzazione dei servizi e/o del solo personale. Operatori riferiscono che dove governa l’ASL i tamponi sono stati fatti ma la realtà lavorativa sociosanitaria ha manifestato insufficienti strumenti e inadeguata preparazione e formazione dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro in periodo di pandemia. La prima causa della diffusione dei contagi è stata e continua ad essere l’assenza di test sul personale e sugli ospiti delle strutture, in alcune situazioni sembra che in un primo momento sia stato vietato ad alcuni operatori l’uso delle mascherine perché non si volevano allarmare gli ospiti. Le strutture che hanno avuto meno contagi sono quelle dove gli operatori sono riusciti, lottando, ad imporre l’uso dei dispositivi di sicurezza.

Quanto emerge dai fatti obbliga ad una riflessione sulla sanità che deve tornare ad appartenere ai cittadini così come altri beni quali l’acqua o il territorio in cui viviamo, ciò che concerne la vita e il benessere dei cittadini non può essere sottoposto a ragioni di bilancio, i lavoratori dei settori sanitario e socioassistenziale dovrebbero rivendicare una forte reinternalizzazione di tutti i servizi che devono tornare a essere interamente gestiti dall’amministrazione pubblica così come avveniva durante gli anni ‘70 e ‘80. Lavoratori e cittadini uniti dagli stessi interessi devono tornare a lottare per riconquistare il diritti alla salute contro la privatizzazione di tutti i servizi e di ogni bene comune.

Lavoratrici del settore

Non vogliamo la “voce del padrone”

L’accordo firmato con l’azienda non obbliga il medico del lavoro a fare il tampone agli operai al loro rientro in fabbrica pur sapendo che nelle fabbriche, per forza di cose, ci sono as-sembramenti di persone. Questo ci dice come viene considerato l’operaio: nulla. L’accordo non dice neppure ogni quanto bisogna sanificare i luoghi di lavoro e se lo chiediamo, l’ azienda ci risponde di non preoccuparci. Questa risposta non può tranquillizzarci. A febbraio abbiamo dichiarato uno sciopero a Mirafiori e a tutte le fabbriche collegate perché i lavoratori avevano timore per la loro sicurezza e ci avevano chiesto di intervenire. L’azienda poi ci consiglia di metterci le tute già da casa ma in questo modo noi potremmo portare il virus dalla fabbrica a casa. Io sono da 5 anni in via Pizzaretti, in un reparto confino e lì han-no messo tutti in cassa integrazione a oltranza, per 9 settimane ancora. Infatti lavoriamo in un grande capannone dove non è possibile assicurare una sia pur minima sanificazione sia negli spogliatoi sia nella mensa. E penso che questo sia un problema comune a tutte le filiali Fiat in Italia. Lavoriamo anche con i disabili ma l’accordo non dice nulla riguardo ai lavoratori disabili. Cosa farà l’azienda? Li lasceranno in cassa integrazione o si dovranno mettere in mutua?

L’azienda quindi promette sicurezza ma sono solo parole. Siamo rientrati in fabbrica da po-co ma intanto le richieste operaie non sono ascoltate e comunque se qualcuno di noi, non dico uno del sindacato di base, ma uno qualunque, vuole andare ad accertarsi che le misure di sicurezza siano rispettate non può muoversi dal suo posto di lavoro. Lo può fare solo il confederale.

Il 1° maggio non è una festa ma una commemorazione di compagni. In fabbrica ci sono troppe cose che non vanno e dobbiamo cercare di incidere, dobbiamo controllare. I confederali e i padroni cercano di sfruttarci sempre di più e ci tolgono il diritto di denunciare quello che succede, non possiamo farlo neppure più su Facebook. Dobbiamo rispondere prima che sia troppo tardi. Con noi c’è anche qualcuno della Fiom.

Grazie a quest’accordo ora i datori di lavoro possono contattarci anche via mail, via Whatsapp. Ma il datore di lavoro non è un mio amico e io non voglio ricevere comunicazioni di lavoro tramite Whatsapp. È assurdo!

Grazie allo scellerato accordo firmato dai confederali ci possono licenziare, insomma ci tengono al guinzaglio come cani ma noi non siamo dei cani obbligati all’obbedienza al padrone!

Una lavoratrice Fiat Mirafiori

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